DIBATTITO

 

PER UNA CRITICA AL MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE

Il capitalismo si è affermato con la violenza e con la guerra, anzi: la guerra si estende in dimensione e barbarie mano a mano che il capitalismo si sviluppa, coinvolgendo in essa le classi sociali sulle quali si basa, cioè la borghesia e il proletariato.
Il movimento operaio in formazione opporrà all’espansione capitalistica e ai nuovi assetti imperialistici l’organizzazione sindacale per unificare i proletari in base alla difesa dei loro interessi materiali e di classe comuni agli sfruttati di tutto il mondo: ma opporrà anche vari e incompleti tentativi di costruzione dell’organizzazione politica, volti ad orientare “la minoranza agente” in una lotta anticapitalistica cosciente e determinata. Gli interessi di classe perseguiti dalla borghesia capitalistica non implicano il progresso di tutto il genere umano. La borghesia non è mai stata, quindi, una classe generale. I proletari costituiscono la classe che dovrà cambiare il mondo perché i loro interessi coincidono con quelli di tutta l’umanità e sono stati resi universali dal progressivo estendersi del dominio capitalistico. Ma i proletari sono anche sfruttati e quindi inconsapevoli del loro medesimo ruolo, con tutte le conseguenze del caso. Così è che molti di loro sono stati, sono e saranno abbietti e corruttibili: ma i nostri interlocutori non risiedono in coloro che hanno le intenzioni migliori, ma in coloro che posseggono le caratteristiche oggettive per determinare il superamento della società capitalistica. Il materiale da utilizzare per questa difficile costruzione è grezzo, primitivo e violento, ma è l’unico materiale storicamente disponibile. Marx scriveva che i filantropi borghesi pretenderebbero di avere la borghesia senza il proletariato e i vantaggi del sistema capitalistico senza le dolorose conseguenze che la divisione dell’umanità in classi antagoniste comporta.
Se da una parte le influenze pacifiste che troviamo in letteratura e in sociologia, così come in quell’elaborazione e in quella prassi di natura ascetica e religiosa, hanno nel tempo condizionato il movimento antiglobalizzazione, dall’altra ciò si è verificato in un contesto capitalistico caratterizzato sia dalla fine dell’illusione dell’edificazione socialista, concretatasi invece nelle forme dispotiche del capitalismo di stato, sia dall’irruzione nella competizione imperialistica mondiale di nuovi soggetti (Cina, India, Brasile) destinati a sconvolgere gli assetti economici e politici preesistenti.  Prima della crisi dei regimi a capitalismo di stato il movimento pacifista internazionale era rimasto compresso dalla fase di decolonizzazione che aveva prodotto guerre di liberazione nazionale sanguinosissime. I partiti comunisti nazionali avevano efficacemente allineato la classe operaia dei rispettivi paesi nel senso degli interessi imperialistici della politica estera dello stato sovietico, e il pacifismo da essi praticato altro non era se non il sostegno a quella politica. La crisi del capitalismo di stato sovietico è stata progressiva: fino a realizzarsi nel modello capitalistico occidentale. Un’uguale dinamica percorreva i partiti comunisti nazionali che cercavano di riciclarsi, almeno nelle loro componenti di maggioranza, come nuovi interlocutori dell’imperialismo dei rispettivi paesi. In questo senso è da leggersi lo “strappo” di berlingueriana memoria che ancora oggi è presentato come un puro atto di coraggio, quando invece fu un abilissimo tentativo di ricollocazione del movimento comunista nazionale italiano rispetto al nuovo scenario internazionale. Il partito comunista italiano, avrebbe seguito il regime sovietico fino nella tomba della reciproca dissoluzione, che si è risolta nell’anticomunismo degli attuali dirigenti russi e di quello proprio della maggioranza del gruppo dirigente del partito democratico della sinistra che ha fatto a pezzi la sua storia la quale, sia pure avariata, aveva consentito almeno un uso di classe dello stalinismo da parte di consistenti settori di militanti comunisti di derivazione operaia. Nemmeno l’attuale dirompente movimento antiglobalizzazione ampiamente caratterizzato dalle tematiche pacifiste si dimostra particolarmente interessato ad intercettare la classe dei lavoratori salariati che vengono considerati alla stregua dei religiosi, degli studenti, dei giovani e dei movimenti di opinione. Le tematiche sindacali non sono estranee a questo movimento, ma esse non costituiscono il collante del movimento medesimo. Un’altra importante considerazione riguarda il dispiegarsi del movimento pacifista che pare svilupparsi maggiormente nei paesi a capitalismo maturo piuttosto che nelle aree meno sviluppate del pianeta. Tale esperienza ha consentito a centinaia di migliaia di giovani di acquisire coscienza dei processi degenerativi del capitalismo, ma ha realizzato una trascurabile penetrazione tra il proletariato latinoamericano, asiatico e africano. Al riguardo è emblematica l’esperienza zapatista: sono del tutto comprensibili le difficoltà che i dirigenti zapatisti hanno incontrato nel collegare l’esperienza del popolo del Chapas ai contesti internazionali, ma il fatto che le loro tematiche terzomondiste abbiano trovato grande seguito nell’occidente capitalistico e scarso nelle aree più arretrate del pianeta la dice lunga sulle capacità dello zapatismo e delle ideologie rurali di rappresentare una credibile alternativa allo sfruttamento di un miliardo di salariati. Il proletariato sfruttato è immiserito, anche moralmente e culturalmente; ed è proprio questa sua condizione oggettiva di miseria che lo rende debole. Se il proletariato rappresenta, oggi più che in passato, le aspirazioni di emancipazione di tutta l’umanità, è certamente meno consapevole di ieri circa questa sua funzione potenziale. Esiste una contraddizione tra il movimento pacifista capace al massimo di complicare temporaneamente i piani al capitalismo (ruolo questo molto importante) e l’esercito mondiale dei salariati, inconsapevoli e ineliminabili pedine dei processi d’accumulazione con i quali il capitalismo cresce e si rafforza: a questo punto, cresciuto e rafforzato a scapito dello sfruttamento di un miliardo di salariati, il capitalismo si paga il lusso di trattare con il movimento per la pace. Le vittorie di questo movimento, anche se ottenute nel contesto che abbiamo cercato di descrivere, non sono trascurabili: ma se tali vittorie non si saldano alle forze sociali produttrici di ricchezza e cioè al proletariato internazionale, sono destinate a risolversi nel capitalismo, così come accade ai movimenti di massa propri dei paesi a capitalismo maturo e ai movimenti di liberazione nei paesi arretrati. Le forze del cambiamento non risiedono nella Sierra Lacandona o nelle piazze invase dai giovani pacifisti, né nei violenti scontri di piazza tra centinaia di migliaia di disobbedienti e le forze di polizia che caratterizzano ogni riunione del G8. Queste ultime sono solo le conseguenze di processi più profondi, gli effetti e non le cause dei fenomeni. Nel difendere la costruttività del movimento contro la globalizzazione è indispensabile riconoscere che se da una parte esso si afferma nelle metropoli imperialistiche quale conseguenza degli orrori del capitalismo dall’altra  non ne costituisce la negazione. Il solo aspirare ad un modello sociale equo ed umano è certamente importante ma non è sufficiente a determinare il superamento della società capitalistica: per raggiungere questo traguardo storico è necessario, prima, individuare i nostri interlocutori che risiedono in quelle forze sociali antagoniste al capitale non per posizioni politiche o comportamentali ma per il ruolo che occupano nel sistema di produzione capitalistico. Esse risiedono nel miliardo di salariati sparsi per il mondo  che sono, per la loro stessa condizione di sfruttati, inconsapevoli del loro ruolo. Queste sono le forze che producono la ricchezza sociale ed in loro deve svilupparsi l’azione organica, organizzata ed orientata della minoranza anarchica agente.

Giulio Angeli